Vacciniamoci tuttə! Sì, ma come?
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di Matteo Di Pasquale
In questi ultimi giorni il tema vaccinazioni è quello che desta maggiori attenzioni e preoccupazioni. Sin da marzo, quando l’epidemia ha raggiunto l'Italia e da lì tutta l'Europa, si è capito che il mezzo più potente ed efficace per sconfiggere il Covid-19 sono i vaccini. Ma da quel momento in poi cosa è successo? Perché dopo 12 mesi, grazie all'impegno di ricercatrici e ricercatori, siamo riusciti a sviluppare diversi vaccini (Pfizer, Moderna, AstraZeneca, Soberana2, etc.), ma non sappiamo dove produrli? Cosa è andato storto? La risposta a queste domande non è banale e deve tenere in conto diversi aspetti.
Il punto da cui necessariamente si è dovuti partire è stata la ricerca per il vaccino: le case farmaceutiche hanno iniziato subito ad impegnarsi nel suo sviluppo e, nel caso europeo, la Commissione ha messo sul tavolo milioni di euro per facilitarne l’iter burocratico e amministrativo oltre che scientifico, aiuti ingenti che di fatto hanno eliminato il rischio di impresa.¹ E così il 21.12.2020 l’Agenzia Europea del Farmaco (EMA), a soli 9 mesi dallo scoppio della pandemia in Europa, approva il vaccino Pfizer BioNTech, cui seguiranno poi le approvazioni di Moderna, AstraZeneca ed infine Johnson & Johnson.
Il passaggio successivo o, per meglio dire, contemporaneo allo sviluppo dei vaccini, è legato alla necessità di trovare luoghi dove predisporre la produzione dei vaccini stessi. Ed è qui che la macchina si inceppa. La stessa Unione Europea, in un documento del 17.06.2020 intitolato “Strategia dell'Unione europea per i vaccini contro la pandemia di Covid-19” ², sottolinea la necessità di investire nello sviluppo del vaccino e “in parallelo nelle capacità di produzione, assicurandosi le materie prime, in modo che la produzione possa iniziare subito”. Cosa è seguito a questo annuncio? Il nulla. Solo oggi, alla luce dei ritardi, stiamo pensando a riconvertire fabbriche o provando a costruire nuovi hub di produzione, con dei limiti non trascurabili e con tempistiche che proiettano l’autonomia vaccinale al 2022.³
Se oggi infatti si pensasse di riconvertire un’azienda, si dovrebbero attendere almeno 4-6 mesi prima dell'arrivo dei bioreattori, macchinari indispensabili per la produzione dell’mRNA, componente principale dei vaccini, a seguire sarebbero necessari almeno 2 mesi di training del personale addetto al suo funzionamento e altrettanto tempo affinché la macchina si stabilizzi per la produzione di migliaia di dosi giornaliere.⁴ Il vaccino però non è composto unicamente dall’mRNA. Per completare la produzione occorrono infatti altri elementi tra cui gli eccipienti e i liposomi per veicolare l’mRNA all’interno delle cellule.⁵ Per quest’ultimi ci sarebbe bisogno di ulteriori strutture e investimenti. In Italia sono diverse le aziende in cui sarebbe possibile avviare la produzione in loco del vaccino. Di queste però solo due sono provviste di un bioreattore: una è la Gsk, azienda britannica con una sede a Rosia (SI), il cui bioreattore però è già utilizzato per la produzione del vaccino contro la meningite, la seconda è ReiThera che sarà invece impegnata da settembre nella produzione del vaccino italiano.⁶
Oltre a questa mancanza organizzativa vi è anche un problema di natura contrattuale. Dal contratto stipulato con AstraZeneca, l'Unione Europea si impegna a fornire alla casa farmaceutica i fondi necessari alla produzione del vaccino e quest'ultima, di conseguenza, a fare tutto il possibile, “best reasonable efforts”⁷, per raggiungere il risultato. “Best reasonable efforts”, definizione che, secondo Bernardo Cortese, professore di diritto internazionale dell'Università di Padova, ammorbidisce le condizioni a cui la multinazionale anglo svedese deve sottostare.⁸ Inoltre AstraZeneca viene completamente assolta per eventuali ritardi dovuti a sopraggiunti accordi dell'azienda farmaceutica stessa con altri Paesi. Sottovalutazioni imperdonabili in un momento estremamente delicato come questo.
A queste mancanze purtroppo è difficile fornire una soluzione immediata. Come descritto, in Europa, il problema non è tanto il costo del vaccino, quanto la capacità produttiva autonoma. La questione quindi dell'eliminazione dei brevetti, seppur di fondamentale importanza per garantire l'accesso ai vaccini ai Paesi del terzo mondo, non risolverebbe il deficit produttivo presente nel Vecchio Continente. Ciò che garantirebbe invece una maggiore velocità di stoccaggio è la condivisione dei metodi e la diffusione delle buone pratiche di produzione, creando un vero e proprio trasferimento di conoscenza tra aziende.⁹ Sarà necessario eliminare i brevetti, come detto, proprio per permettere ai Paesi più poveri di accedere con maggiore velocità al vaccino così da arginare e porre rimedio alla poca lungimiranza che ha contraddistinto questa prima fase della campagna vaccinale, invertendo la rotta. Il che non è irrealistico, anzi: la Dichiarazione di Doha infatti stabilisce il diritto degli Stati di derogare su alcune regole riguardanti i brevetti in determinate condizioni come povertà, difficoltà economiche e a fronte di una pandemia, che sta mettendo a rischio la vita delle persone ogni giorno.¹⁰ Per raggiungere questo obiettivo è nata anche la Campagna “No profit on Pandemic”, iniziativa proposta dai cittadini dell'Unione europea, a cui è possibile aderire cliccando qui.
La Commissione europea e le case farmaceutiche hanno evidenti responsabilità nella battaglia contro la pandemia. È mancata una visione di insieme, una visione di prospettiva e ora tuttə ne pagano le conseguenze in termini di salute, lavoro e socialità. È il momento che le cittadine e i cittadini europei si battano per la tutela di sé e del loro futuro. È fondamentale che in Europa ci si batta per questo.
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