
Il lavoro è… smart!
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di Giorgio Zaccherini e Lorenzo Bernardini
Quella a cui abbiamo assistito nei primi mesi del 2020 è stata la più grande sperimentazione di Smart Work nella storia della tecnologia applicata al mondo del lavoro: una sperimentazione di massa che ha coinvolto quasi tutti i lavori aventi la possibilità di essere svolti telematicamente.
Prima della scoperta del Covid-19 in Italia solo il 2,2% dei lavoratori svolgeva il proprio lavoro con modalità di Smart Work. Durante il lockdown si è raggiunto il 24,8%, si tratta di 4 milioni e 490 mila lavoratori. Solo metà dei cosiddetti smart workers erano lavoratori di aziende private. Questo dato assume un rilievo ancor più significativo se si considera che, tra tutti i lavoratori subordinati, quelli alle dipendenze del privato sono il 74,7%. Non va omesso il fatto che la quasi totalità delle mansioni del settore pubblico hanno carattere impiegatizio d’ufficio, tuttavia l’ingente mole di lavoratori pubblici in Smart Work (il 50,9% del totale) mostra nella Pubblica Amministrazione una realtà già in grado di guardare verso il futuro. I risultati di questa sperimentazione forzata sono stati raccolti in parte dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. Il principale ostacolo al lavoro svolto in modalità telematica è la scarsa digitalizzazione del paese e dei cittadini, sia imprenditori che lavoratori. La mancanza di infrastrutture ha portato l’Unione Europea a chiedere la riduzione del consumo di traffico ai fornitori di servizi di streaming, per non sovraccaricare la rete e scongiurare i rischi di blackout del world wide web. Non ha sicuramente aiutato la campagna di lotta al 5G che alcuni amministratori hanno condotto nei propri territori. Oltre alle nuove tecnologie spesso ostacolate, dobbiamo sempre considerare anche la differenza tra la pianura e la montagna, come quella tra i centri città e le periferie: in tanti comuni dell’Appennino non arriva la fibra elettrica e in alcuni casi ci si ferma ad una ADSL a 7 mega (tecnologia d’avanguardia nel 2008, non certo nel 2020).
Il grande passaggio nell’economia dalla centralità della produzione di beni a quella dell’erogazione di servizi, coincisa con lo scoppio della rivoluzione tecnologica ad inizio millennio, ha portato alla necessità sempre maggiore di un accesso ad Internet per godere di tutti quei servizi che lo Stato eroga in applicazione dell’articolo 36 della Costituzione per assicurare a tutti un’esistenza libera e dignitosa. Da quest’anno si avvia la transizione all’utilizzo dell’identità digitale (SPID) per accedere a tutti i servizi della Pubblica Amministrazione: ben presto sarà questa l’unica modalità di accesso. L’opzione Smart Work nell’anno trascorso si è dimostrata fondamentale non solo al mantenimento del lavoro per il singolo, ma anche quale utile strumento per l’economia dello Stato. È quindi indispensabile oggi guardare l’accesso ad Internet come un diritto dell’Uomo e del Cittadino.
Non solo infrastrutture adeguate, ma anche competenze digitali di base e specifiche, sono elementi che favoriscono la diffusione e l’ampliamento della platea di smart workers. Nel 2019, ad esempio, l’Italia si piazzava a un pessimo ventitreesimo posto in Europa per le competenze digitali dei suoi lavoratori: ben il 39% degli occupati possedeva scarsa o nessuna dimestichezza con le tecnologie digitali. Un fardello che può sicuramente pesare sulla learning agility dei lavoratori italiani, ovvero sulla loro capacità e propensione ad ampliare il proprio bacino di conoscenze per adattarsi ai cambiamenti – una modalità di “sopravvivenza” rivelatasi fondamentale nella fase 1 dell’emergenza pandemica. Sul gap tecnologico della forza lavoro del Paese incide ulteriormente anche la carenza di formazione: secondo gli ultimi dati di INAPP, più di un italiano su due (tra il 53% e il 59% dei 25-64enni) potrebbe aver bisogno di riqualificazione urgente delle sue competenze, divenute o in procinto di diventare obsolete a causa dell’innovazione e del cambiamento tecnologico in atto. Eppure, altra nota dolente, in Italia ci si forma ancora troppo poco: solo il 24% degli adulti prende parte ad attività di formazione e istruzione, contro una media OCSE del 52%, e la stragrande maggioranza di questi sono già occupati (81%), a voler indicare quante persone ancora fuori dal mercato del lavoro non si istruiscano abbastanza.
Deficit strutturali delle infrastrutture digitali, lavoratori poco avvezzi all’uso delle tecnologie e l’assenza di una formazione continua non delineano certo un quadro confortante per la promozione e la diffusione nel nostro paese dello smart working quale lavoro “intelligente” del futuro. Tuttavia, la presenza di questi fattori ostacolanti (su cui il Recovery Plan si impegna a intervenire) non ha evitato che il lavoro agile divenisse, durante la fase più dura della crisi sanitaria, il principale strumento di contrasto al contagio da Covid-19, permettendo così a imprese e lavoratori di preservare, al tempo stesso, salute e continuità del business. Un primo e parziale successo delle aziende e delle persone è stata infatti la capacità di reazione e resilienza organizzativa, di saper rispondere e adattarsi repentinamente agli stravolgimenti imposti dal virus. Nonostante l’impreparazione generale, in pochi giorni milioni di lavoratori italiani hanno sperimentato gioie e dolori del lavoro da remoto, assaggiando in parte la comodità di una migliore conciliazione tra vita professionale e privata e in parte rischiando di sovrapporre eccessivamente le due sfere. Per manager e direzioni HR, invece, la pandemia è stata l’occasione per quell’accelerazione definitiva nell’introduzione di nuove tecnologie digitali e nel r-innovare i propri stili di leadership all’insegna di una maggiore autonomia, flessibilità e orientamento ai risultati. Dalla moltitudine di survey e ricerche condotte sul tema, emerge la volontà comune di imprese e lavoratori a rilanciare e mantenere lo smart working come arma di lungo periodo per incrementare la produttività e godere dei suoi tipici vantaggi (organizzativi, economici e sociali). Questo, però, previo superamento dell’attuale fase emergenziale che caratterizza il lavoro agile in Italia e di riportarlo nell’alveo originale della L. 81/2017, la quale istituisce l’accordo tra datore di lavoro e lavoratore alla cui libera contrattazione è affidata la definizione di tempi, luoghi, obiettivi, diritto alla disconnessione e tutti gli altri aspetti connessi alla fattispecie. La deroga alla sottoscrizione del patto individuale e la conseguente attivazione unilaterale della modalità agile costituiscono, infatti, le caratteristiche principali della forma semplificata di smart working tutt’ora in essere, la cui scadenza è legata alle continue proroghe dello stato d’emergenza nazionale (l’ultima, in ordine di tempo, è fissata per il 30 aprile).
La lunga parentesi di “liberalizzazione” dello smart working dovrà risolversi anche in riferimento a come e se innovare la normativa del 2017, in un dibattito che pare dominato tra un orientamento più incline a modificare significativamente l’assetto normativo e uno più sensibile alle preoccupazioni di chi teme una legislazione invasiva (e per questo contraria alle logiche sottese all’idea di un lavoro realmente smart). Già a settembre scorso, infatti, l’allora Ministra del lavoro sen. Nunzia Catalfo aveva convocato le parti sociali per intavolare il discorso circa l’opportunità di modificare la legge attualmente in vigore. Al momento però il discorso è sospeso in relazione alla recente formazione del nuovo governo Draghi in cui la titolarità del Ministero competente è passata all’On. Andrea Orlando.
Una delle poche – ma solide – certezze che lascia in eredità questa pandemia è la consapevolezza che nemmeno il lavoro sarà più lo stesso. L’emergenza sanitaria e le sue conseguenze hanno segnato infatti uno spartiacque tra un prima e un dopo in cui pare sempre più difficile tornare indietro, avendo intravisto cosa c’è al di là del confine. Agli occhi di chi scrive qualsiasi cambiamento esogeno, specie se attinente al mondo del lavoro, non può mai essere passivo, ma va governato, guidato e indirizzato. Il futuro del lavoro (e il lavoro del futuro) richiede quindi che esso venga gestito: gli attori principali dovranno prendere in mano le redini del gioco. In questo, almeno, ci auguriamo che l’Italia possa giocare un ruolo da protagonista!