Meta vs. UE: quanto c’è di vero nello scontro sulle politiche digitali?
Tempo di lettura: 4 minuti
di Aurora Trotta
Ha destato molta attenzione mediatica la notizia di una possibile chiusura di Facebook e Instagram nello spazio europeo. Un annuncio cavalcato dai media, caduto a capofitto nel vortice degli articoli acchiappa click. La smentita è infatti arrivata subito e l’azienda ha assicurato che non chiuderà i servizi nel territorio europeo.
Una settimana fa Meta, il gruppo proprietario dei più noti social network, ha condiviso con la Security and Exchange Commission americana un report, in cui ha elencato ai suoi finanziatori alcuni fattori di rischio per gli investimenti nella propria azienda. Tra questi ha citato proprio i regolamenti governativi, che siano essi della UE o di altri Stati (hanno citato anche la California e l’India). In particolare, il problema che Meta ha esposto riguarda l’annullamento, ormai relativo al 2020, degli accordi sullo scambio di dati tra UE e USA. Si tratta del Privacy Shield e del Safe Harbour (quest’ultimo già invalidato nel 2016 con la sentenza Schrems I), invalidati dalla Corte di Giustizia della UE al costo di lasciare un vuoto normativo importante per le aziende che lavorano sullo scambio di dati tra i continenti. Per questo Meta ha poi esplicitato il suo interesse ad avere normative chiare che regolino i rapporti tra l’azienda e le istituzioni europee.
La questione necessita ora di un approfondimento. Il Privacy Shield era lo “scudo UE-USA per la privacy” e avrebbe dovuto regolare lo scambio di dati a livello transatlantico, rimpiazzando il Safe Harbour. In particolare, la decisione di rendere il trattato invalido nasce dall’incompatibilità di questo con le attuali leggi sulla privacy vigenti nella UE. Sono tre i punti più dibattuti: la quantità di dati processati, la questione della cancellazione dei dati e l’assenza di garanti. Il problema vero però si ebbe durante la Presidenza Trump, quando quest’ultimo, per questioni di sicurezza nazionale, firmò un ordine esecutivo in cui dichiarò di non voler estendere le tutele ai cittadini non-statunitensi. Per farvi fronte la Commissione propose alcuni strumenti aggiuntivi: il Privacy Shield (ma non basato sull’attuale legislazione USA sulla privacy) e l’UE-USA Umbrella Agreement. Successivamente, la Corte di Giustizia UE ha dichiarato invalido lo Scudo sulla privacy nella famosa sentenza Schrems II del 2020. Le paure degli europei sui trasferimenti di dati negli USA seguono lo scandalo generato dalle rivelazioni di Edward Snowden nel 2011 sull’appropriazione da parte della National Security Agency (NSA) dei dati di utenti europei appartenenti a Facebook e Google, la quale li avrebbe utilizzati a scopi d’intelligence e di sicurezza nazionale.
Ma tornando al caso Meta, la risposta degli europei alla posizione dell’azienda sul caso mediatico in questione non si è fatta attendere. In particolare, il portavoce della Commissione Europea Eric Mamer ha dichiarato che pur non avendo commenti da fare sulla vicenda “una cosa deve essere assolutamente chiara: l’Ue stabilisce la sua legislazione tenendo conto dei nostri valori, degli interessi dei consumatori e dei cittadini”. Aggiungendo che, “tenendo conto dei punti di vista espressi dagli operatori economici, essa agisce autonomamente quando deve stabilire i suoi regolamenti”.
Quello tra aziende Big Tech e istituzioni europee è un conflitto che si protrae da molti anni e che ha avuto il suo culmine durante il varo del GDPR (General Data Protection Regulation), la legge che tutela la privacy dei cittadini europei del 2016. La UE, nell’ultimo decennio, si è dimostrata legislatore di massima importanza nel campo del diritto digitale, una posizione che l’ha resa leader a livello globale e che ha generato quello che la politologa Anu Bradford ha chiamato il Brussels Effect. L’UE avrebbe infatti rappresentato un esempio di legislazione digitale anche per altri player mondiali, i quali ne avrebbero seguito l’ esempio adattandosi ai suoi standard. Niente che fosse minimamente negli interessi delle BigTech, che infatti criticano pesantemente tutto il processo, tentando, spesso invano, di modificarne gli esiti.
All’indomani della comunicazione sull’ Artificial Intelligence Act, la legge che dovrebbe tutelare i diritti degli utenti nel campo dell’intelligenza artificiale, Eric Schmidt, ex amministratore delegato di Google e Alphabet, nonché esponente di rilevante importanza negli ambienti tech americani, ha criticato le intenzioni della Commissione adducendo quasi le stesse motivazioni esposte recentemente da Meta. Nella fattispecie, questioni di overregulation e incapacità di interpretare le normative da parte degli operatori economici. Pur non ricoprendo al momento posizioni nelle BigTech, Schmidt può esser preso sicuramente come rappresentante del malumore che le iniziative di governance digitale generano tra gli agenti economici.
Stessa cosa vale per il Digital Service Act e Digital Markets Act, che è stato ripreso da Meta anche in questa occasione. Stiamo parlando del progetto di regolamento europeo che intende trattare dei diritti e delle responsabilità degli utenti sulle piattaforme digitali e che è stato approvato dall’Europarlamento solo un mese fa. Ad oggi, il problema cruciale, venuto fuori anche in quest’ultima diatriba, è quello di ottenere un accordo con gli USA sui trattati che regolano la privacy, tenuto conto anche delle più avanzate normative presenti nella UE. A dir la verità, tanti sono i tavoli congiunti al momento e va soprattutto menzionata la volontà della Commissione a raggiungere un accordo che possa tener conto dei valori e dei principi ai quali si inspirano gli europei.
Per concludere, esiste un fondo di verità nella vicenda appena descritta e anche se Meta non chiuderà né Facebook né Instagram, lo scontro sulle politiche si prevede comunque molto acceso.