A Giancarlo Siani

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di Giorgio Romano

Quella in copertina è la prima foto che mi viene in mente quando si parla di Giancarlo Siani. È a una manifestazione, ha la faccia dipinta di bianco, sulla guancia il simbolo della pace, gli occhi sono persi nella folla. Da questa foto Giancarlo sembra un ragazzo come tanti, come noi. Forse non lo sembra: lo è. Raramente ci si ferma a riflettere sul fatto che Giancarlo Siani, prima di essere un giornalista ucciso dalla camorra, era un ragazzo di 26 anni come tanti altri. L’età e la sua straordinaria normalità ci ricordano quanto faccia schifo chi l’ha ucciso, e ci ricordano che proprio perché Giancarlo era come noi, noi potremmo (e dovremmo) essere come lui. Rifiutando la retorica del martire, ricordato solo in virtù di ciò che ha subito e patito, Giancarlo va preso come un esempio, da ricordare per ciò che ha fatto, ha detto e ha scritto, per ciò che ha significato prima e dopo la sua morte e per l’effetto che ha saputo generare. Riprendendo le parole di sua nipote Ludovica, proprio per questo ricordo trasmesso “Giancarlo è di tutti, anche di quelli che non l’hanno mai conosciuto ma che leggendo i suoi articoli hanno scelto di sapere di lui e di non dimenticarlo”.

Per raccontare la storia di Giancarlo Siani non si può non partire dal luogo in cui è nato e dal periodo storico in cui l’ha vissuto. La Campania di metà anni ’80 è una terra che ha ancora addosso i segni del terremoto, non solo per la ricostruzione che stenta a procedere ma anche per gli effetti sulla società e sull’economia, ancora ben visibili. Quasi ogni giorno ci sono proteste e agitazioni animate dai disoccupati, e proprio di loro parlerà Giancarlo nei suoi primi articoli per Il Mattino, il principale quotidiano campano, sottolineando un collegamento sempre più evidente in quegli anni: “Non riusciremo mai a sconfiggere la camorra se prima non verranno affrontati i problemi dell’occupazione”. Eccole le tre piaghe: terremoto, disoccupazione e camorra. Le prime due alimentano la terza, dalla ricostruzione per il terremoto arriveranno i soldi, dalla disoccupazione la mano d’opera. Questi sono elementi che sono ben chiari in quegli anni, gli stessi cittadini di Torre Annunziata, la città alla quale è stato assegnato Giancarlo come corrispondente, insisteranno nel chiedere la riapertura delle fabbriche e dei cantieri chiusi per colpa della camorra, proprio perché servono, come recita uno striscione dei manifestanti, “Non solo polizia ma più posti di lavoro”. Anche per quanto riguarda il terremoto la riflessione di Giancarlo si dimostrerà avanguardista, lui stesso inizierà a lavorare ad un’inchiesta sui rapporti tra la politica e la malavita organizzata negli appalti per la ricostruzione. Sono segnali di quanto effettivamente brillante e fastidiosa fosse per la camorra l’attività di Giancarlo Siani, in grado di smuovere la rabbia e la rassegnazione.

Tutto ciò avviene a Torre Annunziata appunto, dove Giancarlo lavora come corrispondente senza un contratto regolare, condizione che non gli permetterà di proseguire il percorso per diventare un giornalista professionista. La maggior parte degli articoli riguarda il rapporto tra gli esponenti politici locali e il boss Valentino Gionta, un pescivendolo ambulante arricchitosi con il contrabbando di sigarette e lo spaccio di droga. La furia omicida della camorra si riverserà sulla città alla fine di agosto del 1984 con la terribile Strage di Sant’Alessandro, nata per colpire proprio il clan di Gionta. 14 sicari armati di fucili a pompa e da assalto uccideranno 8 persone e ne feriranno 7, alcune delle quali non legate al clan, senza però riuscire ad eliminare il boss. Questa guerra di camorra, sempre più violenta e spietata, arriverà ad una tregua con l’arresto di Gionta. Con un’inchiesta, il 10 giugno 1985, Giancarlo rivela che l’arresto del boss è stato possibile grazie ad una soffiata alle forze dell’ordine del clan dei Nuvoletta, storici alleati di Gionta. Il clan avrebbe tradito l’alleato per ottenere la pace con i casalesi di Antonio Bardellino, esecutori della strage di Sant’Alessandro. L’articolo di Giancarlo è uno smacco terribile per i Nuvoletta, soprattutto per la loro credibilità agli occhi delle altre famiglie camorristiche. Ecco perché l’articolo costerà a Giancarlo la vita.

Nell’agosto del 1985 Giancarlo Siani viene trasferito alla sede centrale del Mattino a Napoli, in via Chiatamone, per sostituire alcuni colleghi in ferie. Sono vent’anni che la sede del giornale è stata spostata lì, dopo aver lasciato vico rotto San Carlo, dove era stato fondato da Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao. Traffico permettendo, ci vogliono venticinque minuti per andare dalla sede del giornale a casa di Giancarlo, in via Vincenzo Romaniello. La sera del 23 settembre 1985 Giancarlo percorre quei sei chilometri, alle 20:30 parcheggia la sua Citroen Méhari verde, due uomini a volto scoperto gli si avvicinano e lo uccidono con dieci colpi di pistola alla testa. Da quel momento Giancarlo Siani diventa un simbolo, in grado di incarnare per la collettività ciò che in vita aveva rappresentato come singolo individuo: un’estrema forma di repulsione viscerale nei confronti della criminalità organizzata e di chi la spalleggia. Si dice che una storia finisca solo quando si smette di raccontarla, mai come in questo caso abbiamo l’impellente bisogno di raccontare, di ricordare e di trasmettere. Lo fa bene un film, che non si può non citare: Fortapàsc. Non solo per come viene rappresentata la storia di Giancarlo ma anche per il modo in cui appare del tutto attuale (nel 2009 ma ancora oggi) la sua lotta. Cambiano i luoghi e le persone, ma la camorra c’è ancora, vive meno di massacri e più di investimenti, ma fa sempre schifo. Il film ci ricorda anche quanto potente e stupendo possa essere il giornalismo, e lo fa con un dialogo iconico tra Libero De Rienzo ed Ernesto Mahieux, che ha immortalato Giancarlo nella figura del “giornalista giornalista”, lo lascio qui per chi non l’ha mai letto e per chi volesse rileggerlo, in entrambi i casi, ce n’è bisogno:



Sasà: Hai visto quant'è bravo u cane mio? Fa u cane, e io faccio u padrone. Io song u padrone d'u cane. E così è pure con gli uomini, Giancarlo: ci stanno i cani e ci stanno i padroni. Tu che vo' fa', u cane o u padrone?

Giancarlo: Nessuno dei due. Io voglio fare il giornalista.

Sasà: Eh, lo sapevo che mi dicevi questo. Magari vuoi fare pure il giornalista-giornalista, no? No, perché anche qua ci stanno due categorie. Ci stanno i giornalisti-giornalisti e i giornalisti-impiegati. Io ho scelto la seconda categoria. Ma devo dirti la verità, non mi trovo male. Tengo la macchina, tengo la casa, tengo l'assistenza sanitaria e tengo pure u cane, vedi? Perché i giornalisti-giornalisti, embè, quelli so' tutta un'altra cosa, Giancà! Quelli portano le notizie, 'i scoop, e non sempre si devono aspettare gli applausi della redazione. No, perché le notizie, 'i scoop, so' 'na rottura e cazz'. Perché fanno male, fanno male assai. E allora, se ti posso dare un consiglio, sta' a sentì a Sasà: l'inchiesta che stai facendo, io non ne voglio sapere niente. E dà retta a me: questo non è un Paese per giornalisti-giornalisti, questo è nu Paese per giornalisti-impiegati.