Conflitto israelo-palestinese: da che parte va l’Italia?
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di Giorgio Romano
Dal 7 ottobre, giorno del brutale attacco di Hamas, il conflitto israelo-palestinese è tornato ad avere un’importante copertura mediatica nel nostro Paese. Immediatamente si sono quindi accese discussioni, prese di posizione e analisi che hanno il merito di ricordarci quanto complesso e contorto sia questo argomento. Ogni singola parola, quando si analizza questo conflitto, assume un peso specifico enorme. Premesso quindi che “le parole sono importanti” sempre, perché prima di tutto sono in grado di trasmettere emozioni, in questo caso sono capaci anche di determinare l’intera analisi storico-politica che le seguirà. Un esempio sta nella differenza tra chi si riferiva al conflitto con la denominazione di “arabo-israeliano” e chi invece usava “israelo-palestinese”, una differenza tutt’altro che sottile dato che, nel secondo caso, comporta il riconoscimento di una nazione palestinese, fatto tutt’altro che scontato anche tra gli stessi arabi per molto tempo. Il peso delle parole vale ancora oggi, quando ad esempio parliamo di “Questione” o di “Resistenza” palestinese, anche in questo caso la scelta comporta una conseguenza, quella di non riferirsi al conflitto come un semplice rapporto tra aggressore e aggredito, ma riconoscere anche la dimensione del perseguitato e, necessariamente, del persecutore.
Un commento rabbinico alla Bibbia riportato dallo storico francese Pierre Vidal-Naquet dice che: "Dio è sempre dalla parte di chi è perseguitato. Può darsi il caso di un giusto che perseguita un giusto e Dio è dalla parte del perseguitato. Quando un malvagio perseguita un giusto, Dio è dalla parte del perseguitato. Quando un malvagio perseguita un malvagio, Dio è dalla parte del perseguitato. Anche quando un giusto perseguita un malvagio, Dio è dalla parte di chi è perseguitato”. In poche righe viene delineato un ragionamento semplice e razionale, una vera e propria bussola da usare per orientarsi in situazioni complesse come questa. Farlo ci permette di riconoscere in qualsiasi momento ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, due concetti che appunto non combaciano sempre con buono e cattivo.
Ciò detto, è inammissibile pensare che Hamas, considerata un’organizzazione terroristica dall’Unione Europea, possa giocare il ruolo del perseguitato malvagio. Hamas e il suo braccio armato, le brigate Ezzedine Al-Qassam, sono un rigurgito della storia nato certamente da decenni di richieste di libertà frustrate, ma pur sempre un rigurgito della storia che incita all’odio e al fondamentalismo islamico. La colpa politica principale di Hamas è poi quella di aver mandato in fumo i lunghissimi processi di avvicinamento tra le due parti. Basti pensare al travagliato percorso che aveva permesso di rendere maggioritario il principio “due popoli due Stati”. Proposta completamente avversata da Hamas che, alla metà degli anni ’90 (dopo la firma degli accordi di Oslo II e la morte di Rabin) era l’unica organizzazione palestinese a non riconoscere di fatto il diritto all’autodeterminazione del popolo israeliano. Anche il richiamo alla figura di Ezzedine Al-Qassam, leader palestinese degli anni ‘30, è un richiamo ad un passato non tanto mitizzato quanto attualizzato. Insomma, Hamas non può rappresentare i palestinesi dal punto di vista politico proprio perché non tiene minimamente conto di tutto il lavoro di riflessione, avvicinamento e organizzazione politica che è stato fatto dai palestinesi dopo la nascita dello Stato di Israele.
Un’organizzazione che si rifà a tesi scioviniste, riassumibili nello slogan “ebrei a mare” (precedente ad Hamas, ma in grado di trasmetterne il posizionamento) non è sicuramente in grado di rappresentare i palestinesi e raccogliere l’eredità di figure come quella di Yasser Arafat che, per quanto discutibile sotto alcuni punti di vista, è stato in grado di far bene laddove nessun altro ha fatto di meglio. Non dimentichiamo ad esempio che, nonostante il danno di credibilità politica seguito all’ennesimo fallimento degli accordi di Oslo e alla morte di Rabin, Arafat fu in grado di guidare ancora i palestinesi durante il vertice di Taba. Si tratta di un vertice “sfortunato” ma allo stesso tempo propizio: a Taba nel gennaio 2001 si svolsero infatti delle trattative di pace, mediate dal presidente statunitense Bill Clinton (poco prima dell’arrivo alla Casa Bianca di Bush), tra il presidente israeliano e laburista Ehud Barak e, appunto, Arafat. Israeliani e palestinesi durante quel vertice trovarono un accordo, in grado di porre le linee guida necessarie per la soluzione dei due Stati, accordo che però come disse uno dei negoziatori “arrivò troppo tardi”. Il mandato di Clinton terminò e il governo Barak cadde, alle elezioni successive stravinse il Likud (il partito di Netanyahu) guidato da Ariel Sharon. Questa serie di eventi, uniti al rafforzamento di Hamas, portò ad una fortissima polarizzazione dei due campi tanto che, dopo Taba, qualsiasi tentativo di mediazione fu fallimentare.
Questi brevi spunti di riflessione e cenni storici ci sono d’aiuto per provare a capire come si sia arrivati fin qui, non solo tra le parti del conflitto, ma soprattutto (almeno per quanto ci riguarda più direttamente) nella percezione che la società italiana ha del conflitto stesso. La storia diplomatica del nostro Paese è sempre stata connotata da una particolare attenzione a non sbilanciarsi eccessivamente e, per molto tempo, ha visto il Mediterraneo come sbocco naturale per la propria politica internazionale. Affacciati alle sponde dello stesso mare, italiani e palestinesi hanno a lungo vissuto una storia di assoluta vicinanza tanto da fare dell’Italia, tra i Paesi del blocco occidentale, uno degli Stati più vicini alla resistenza palestinese. L’apice di questa vicinanza lo possiamo riscontrare nel 1982, anno in cui la violentissima invasione del Libano da parte di Israele cambiò definitivamente la percezione che gli italiani avevano dello Stato di Israele. La celebrazione definitiva di questo rapporto con i palestinesi si ebbe nel settembre ’82 quando, su invito del Presidente dell’Unione interparlamentare Giulio Andreotti, Yasser Arafat si recò in Italia e, nel giro di due giorni, ebbe colloqui privati con: il ministro degli esteri Colombo, il Presidente della Repubblica Pertini, il segretario della DC Flaminio Piccoli, il segretario del PCI Berlinguer, il segretario del PSI Craxi, i leader dei tre sindacati maggiori e Papa Giovanni Paolo II. A questo si unirono importanti manifestazioni di piazza contro l’invasione del Libano culminate con il boicottaggio delle compagnie aeree e navali israeliane. Insomma, gli italiani avevano scelto da che parte stare, di credere nell’autodeterminazione dei popoli, nei due Stati.
E ora? Adesso sembra esserci una discordanza tra politica e società, con la prima che tratta il conflitto come un tabù sul quale schierarsi è complesso (lo sappiamo bene, ma è anche necessario) e nel quale conviene banalizzare la situazione: la politica italiana è dalla parte degli Stati Uniti, della democrazia israeliana e contro i terroristi di Hamas. Dimenticando non solo decenni di storia e un intero popolo ma anche la costante violazione delle risoluzioni ONU. L’ultimo esempio è la scelta dell’Italia, di qualche giorno fa, di astenersi sulla risoluzione dell’Assemblea Generale che chiedeva una tregua umanitaria, un altro danno al lavoro diplomatico. Se si crede nella diplomazia si deve necessariamente credere nel lavoro delle Nazioni Unite. Dire che l’occupazione israeliana è illegittima non vuol dire in alcun modo negare la legittimità dello Stato israeliano ma, anzi, è un’affermazione delle altrettanto legittime aspirazioni di indipendenza dei palestinesi. Riconoscere la necessità di uno Stato palestinese non vuol dire sposare la tesi “ebrei a mare” ma, anzi, rinnegare quella che vorrebbe eliminare i palestinesi dalla loro terra. Il coraggio richiesto alla nostra politica è quello che, negli ultimi anni, non è stato mai dimostrato. Il modo in cui la politica è stata costretta a fare un passo indietro rispetto alle primissime uscite dopo l’invasione di Hamas, “obbligata” dalla reazione della società, è tutto fuorché un atto di coraggio. È la dimostrazione di una forte distanza dal sentire comune, di una presa di posizione politica che cerca (in maniera goffa e, soprattutto, sbagliata) solo la popolarità e, accorgendosi di non averla raggiunta, torna ancor più goffamente sui propri passi. Si tratta invece di rilanciare il ruolo diplomatico del nostro Paese e dell’Unione Europea andando semplicemente incontro a dei principi ovvi: l’autodeterminazione dei popoli (principio affermato più di cento anni fa, nulla di nuovo) e la fiducia nelle Nazioni Unite, nel farne rispettare le decisioni in qualsiasi caso, davanti a chiunque. Se non saremo in grado di farlo non saremo solo dei pessimi posteri ma anche dei disastrosi antenati, meglio evitare.