Addio all'abuso d'ufficio. Bagno di realismo o rischi per la legalità?
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di Mario Visconti e Giovannini Spaziante
Lo scorso 10 gennaio la Commissione giustizia del Senato ha deliberato l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. Si tratta di una fattispecie prevista all’art. 323 del codice penale che punisce la condotta del pubblico ufficiale che, nello svolgimento delle sue funzioni, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un conflitto di interessi, procura intenzionalmente a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arreca ad altri un danno ingiusto.
Il reato è da tempo oggetto di forti critiche, soprattutto da parte di sindaci e amministratori locali di tutte le parti politiche, perché la sua ampia formulazione permetterebbe l’apertura di indagini che nella stragrande maggioranza dei casi si concludono con archiviazioni (circa l’80% dei procedimenti avviati) o assoluzioni (più del 90% di quelli giunti al dibattimento)¹. L’elevato numero di procedimenti, a fronte di una esiguità di condanne (27 nel 2021, con 35 patteggiamenti), determinerebbe la cosiddetta “paura della firma” per sindaci e funzionari che, per timore di essere indagati, evitano di prendere decisioni, provocando un immobilismo dell’amministrazione.
Ciononostante, l’abrogazione completa dell’art. 323 non risulta essere una soluzione del tutto convincente. Anzitutto, la previsione di una norma di chiusura fra i reati contro la pubblica amministrazione è imposta da obblighi internazionali ed europei: l’art. 19 della Convenzione di Merida, ratificata dal nostro Paese nel 2009, così come la proposta di direttiva europea presentata lo scorso maggio, impegnano gli Stati a prevedere come reato l’abuso d’ufficio (abuse of functions). Il legislatore potrebbe quindi essere costretto a tornare sui propri passi e reintrodurre la fattispecie (già prevista in altri 25 Stati membri), con il rischio, altrimenti, di incorrere in una procedura di infrazione.
In secondo luogo, non può essere ignorata l’indefettibile esigenza di tutela dei cittadini che si relazionano con l’amministrazione, che sarebbe inevitabilmente minata dall’abrogazione di un reato che punisce tutti gli abusi di funzioni e poteri non rientranti nelle più gravi ipotesi di corruzione, concussione, induzione, ecc. Questi episodi, seppur limitati sul piano quantitativo, risultano ugualmente non trascurabili e meritevoli di sanzione penale: il commissario di un concorso che favorisce un candidato senza ricevere nulla in cambio, ad esempio, non è punibile né per corruzione né per turbativa d’asta e resterebbe quindi impunito². Ulteriormente, come evidenziato anche dal presidente dell’ANAC Busia³, l’abrogazione del reato rischia di avere effetti controproducenti, giacché il vuoto normativo potrebbe essere colmato dalla contestazione di altri e più gravi reati, come il peculato o la turbativa d’asta (con buona pace della paura della firma).
L’elevato numero di archiviazioni, d’altra parte, è sintomo di un’ingente quantità di esposti e denunce da parte dei cittadini (di fronte ai quali i pubblici ministeri hanno l’obbligo di avviare le indagini), che risulta fisiologico in presenza di una norma incriminatrice con funzione di chiusura del sistema e con contorni applicativi ampi. Se, da un lato, è comprensibile la paura degli amministratori di essere sottoposti a indagine, dall’altro sarebbe opportuno scindere la responsabilità politica da quella penale: il semplice avviso di garanzia o il rinvio a giudizio non dovrebbero rappresentare di per sé motivo di dimissioni o pubblica indignazione, laddove i fatti su cui si basano non siano politicamente rilevanti. In altre parole, è evidente che l’accusa di abuso d’ufficio mossa al sindaco di Ospedaletto Euganeo (assolto nel 2021) per aver rimosso un volantino dell’opposizione contro di lui non giustifica le dimissioni. Diversamente, nel caso che ha riguardato l’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, la Corte d’Appello di Milano ha riconosciuto l’esistenza del reato di turbativa d’asta (Uggetti aveva truccato una gara d’appalto, confezionando un bando su misura per affidare a una ditta amica la gestione di due piscine comunali) ma ha pronunciato un’assoluzione per la particolare tenuità del fatto⁴: pur essendo una condotta penalmente irrilevante, risulta evidente la gravità politica dei fatti accertati.
Allargando la prospettiva, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio non può non essere letto come parte di un disegno complessivo portato avanti dal Governo, di cui fanno parte anche la liberalizzazione degli appalti (con l’estensione della possibilità di procedere ad affidamenti diretti senza gara), la stretta sulle intercettazioni, i limiti alla pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, le continue dichiarazioni del Ministro della Giustizia contro i presunti eccessi della magistratura. Sparisce dall’agenda la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata e, al contrario, si concentrano le forze sul depotenziamento degli strumenti di vigilanza e repressione delle irregolarità. Passa così l’idea di uno Stato lassista che allenta i controlli sui reati dei “colletti bianchi”, mentre al contempo introduce nuovi reati comuni al verificarsi di ogni fatto di cronaca (rave party, accattonaggio, blocco stradale, ecc.).
Nella tensione fra tutela della legalità e buon andamento dell’attività amministrativa, non è facile dire quale sarebbe la soluzione migliore. Probabilmente, al posto di un’abrogazione, sarebbe stato più opportuno optare per una riformulazione della fattispecie oppure introdurre nuovi strumenti a disposizione dei cittadini per difendersi dagli abusi di funzione (diversi dalle denunce penali).
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